Se mio fratello è fragile
Se mio fratello è fragile
Martina – stock.adobe.com
Supervisore educativo e formatore
Padre di una figlia con disabilità
Lavorare con la disabilità è, spesso, un’esperienza che coinvolge ben oltre il piano professionale. Quando però la disabilità entra anche nella dimensione familiare, l’integrazione tra vissuto personale e ruolo lavorativo diventa inevitabile. In questo articolo propongo una riflessione che nasce dall’incrocio tra due esperienze fondamentali della mia vita: quella di padre di una figlia con disabilità e quella di supervisore in una comunità per minori, dove sono accolti anche minorenni con disabilità.
L’obiettivo non è offrire risposte esaustive, ma condividere una prospettiva, dare voce a un punto di vista ancora poco rappresentato e, forse, generare confronto all’interno delle équipe educative e delle comunità professionali.
La nascita di una figlia con disabilità comporta, sin dai primi momenti, uno scarto rispetto alla genitorialità “attesa”. Le diagnosi mediche, le riabilitazioni, le prognosi incerte diventano parte integrante della quotidianità. Ma la vera sfida non è solo clinica o assistenziale: è emotiva, identitaria.
Essere padre, in questo contesto, significa ridefinire il proprio ruolo. Non si è più soltanto “guida” o “modello”, ma si diventa mediatore,
osservatore, caregiver, difensore, promotore di autonomia, gestore di servizi. La relazione padre-figlia si costruisce su una comunicazione spesso non convenzionale, fatta di sguardi, gesti, tempi rallentati, piccole conquiste quotidiane. Tuttavia, ciò che più mi ha colpito, è stata la trasformazione silenziosa ma profonda vissuta dagli altri figli, normodotati.
La letteratura pedagogica e psicologica ha ormai documentato l’effetto della disabilità su fratelli e sorelle, ma nella prassi familiare questo tema resta spesso invisibile. Il figlio normodotato, nella nostra esperienza, è diventato un “adulto in miniatura”: maturo, collaborativo, sensibile, ma anche segnato da un senso di esclusione emotiva. Il vissuto a scuola con i compagni che fanno domande alle quali non sempre è facile rispondere o anche gli insegnanti che li ritengono, anche se più piccoli, responsabili del fratello disabile.
Il carico assistenziale, le emergenze continue, gli appuntamenti terapeutici, assorbono gran parte delle risorse familiari.
Il rischio è che i fratelli e le sorelle si sentano “emotivamente trascurati” o si auto-escludano per non essere “di peso”. Crescono in una zona grigia: non richiedono attenzione perché “stanno bene”, ma interiorizzano vissuti ambivalenti (gelosia, senso di colpa, orgoglio, fatica) che difficilmente trovano spazio di elaborazione.
Per chi lavora con le famiglie, è fondamentale intercettare questi vissuti, offrendo ascolto, spazi di parola e riconoscimento anche a questi figli “ombra”, che spesso vedono negati i loro diritti.
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Nel mio ruolo di supervisore di comunità educative per minori, ho potuto osservare dinamiche simili, ma con sfumature diverse. L’accoglienza di minori con disabilità in strutture residenziali pensate per il disagio psico-sociale apre interrogativi importanti: è possibile realizzare un’inclusione reale o si rischia una coesistenza forzata?
Da un lato, la presenza di minori con disabilità arricchisce il gruppo: stimola l’empatia, favorisce il senso di cura, insegna a gestire la diversità, anche se anche in questi casi, e non solo, dobbiamo riflettere molto sul senso di accogliere nelle stesse strutture le fratrie.
Dall’altro, pone problemi organizzativi, formativi e relazionali significativi:
- Competenze degli operatori: spesso non adeguatamente formati su temi come l’autismo, la disabilità intellettiva o le patologie neuropsichiatriche.
- Risorse strutturali: mancano spazi, strumenti e figure specializzate.
- Sovraccarico emotivo: la gestione delle crisi, l’imprevedibilità dei comportamenti, il lavoro in équipe richiedono una tenuta emotiva costante.
Essere padre di una figlia con disabilità mi ha dato strumenti che nessun master o corso di formazione avrebbe potuto offrirmi. Ma ha anche aperto vulnerabilità che ho dovuto imparare a riconoscere e gestire, grazie anche a un lavoro personale di psicoterapia, che dovrebbe essere offerto a tutti i genitori e ai fratelli e sorelle di disabili. Allo stesso modo, il lavoro educativo in comunità mi ha fornito un linguaggio e una cornice teorica per leggere e dare senso alla mia esperienza familiare.
Questa convergenza – a volte faticosa, a volte generativa – mi ha insegnato l’importanza di un approccio sistemico: nessun bambino, con o senza disabilità, può essere pensato fuori dal contesto relazionale in cui vive. Né in famiglia, né in comunità.
La disabilità non è solo una condizione medica o sociale: è una lente che costringe a rivedere le logiche della cura, le dinamiche affettive, i modelli educativi. Come padre e come educatore, ho imparato che la sfida non sta tanto nell’“includere” qualcuno, quanto nel rimettere in discussione i criteri con cui costruiamo la normalità. Occorre formare équipe capaci di ascolto, supervisioni attente ai vissuti profondi, famiglie sostenute nella loro complessità, contesti comunitari realmente accessibili. Solo così potremo fare della disabilità – personale o altrui – non un ostacolo, ma un’occasione trasformativa, per tutti.
Marco Fulvi
Quando mi è stata inoltrata la richiesta di scrivere una mia testimonianza in quanto fratello di persona disabile, devo ammettere che sono rimasto un po’ perplesso.
Chi, come me, ha fratelli o sorelle portatori di handicap sa bene che è insolito, per noi, sentirsi chiedere cosa si prova in relazione alla “condizione” del proprio fratello o sorella. Tutta la mia infanzia è stata marcata da frasi del tipo «Marco è così bravo, si fa già la doccia da solo» a tre anni nello spogliatoio della piscina, mentre mia madre era indaffarata a mettere i calzini a mia sorella. Oppure: «Mettiamo Marco al banco con il bambino iperattivo, tanto è abituato», perché ovviamente, a sette anni, un bambino è così bravo ad autoregolare le proprie emozioni che sa gestire anche quelle degli altri. O ancora: «Devi essere bravo e paziente con mamma e papà, loro hanno già tua sorella a cui pensare», come se non lo sapessi già benissimo.
È questo che non mi sarà mai chiaro: perché il genitore del disabile è un povero malcapitato, ma i fratelli devono essere un solido sostegno, senza aver diritto al capriccio o alla lamentela?
Se la mia infanzia è stata contornata da frasi di cui sopra, l’adolescenza non è che sia stata tanto meglio. Ogni adolescente, prima di uscire di casa, chiede sempre il permesso. Io no, io non chiedevo il permesso. Io chiedevo (e chiedo) se fosse possibile in relazione all’organizzazione familiare, rispetto alla domanda: «Chi resta a casa con Michela?». «Mamma, vorrei dormire fuori, però non ricordo: domani mattina c’è qualcuno che resta a casa o devo tornare prima che tu vada a lavoro?»
Prendere la patente è, generalmente, simbolo di libertà, ma per noi aggiunge solo altre citazioni alla lista: «Marco, sono bloccata nel traffico: la vai a prendere tu Michela?» mentre stai facendo un aperitivo con i tuoi amici all’altro capo di Roma.
Ma che fai, dici di no? Allora non sei così bravo. No, tu devi aiutare mamma e papà. E quando loro non ci saranno più? Tu devi continuare a essere un bravo fratello, devi essere lì per tua sorella…
Noi fratelli, semplicemente, non siamo visti. I nostri bisogni non sono visti. Le nostre richieste non sono viste, e, peggio ancora, non dobbiamo lamentarci. Lo sappiamo bene che c’è chi sta peggio di noi, quindi dobbiamo aiutare loro.
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Marina Terragni
La cura è un’esperienza umana fondamentale. In alcune fasi della vita – infanzia, vecchiaia, malattia – il bisogno di cura si fa più intenso, ma l’interdipendenza tra viventi è una costante. La cura non può continuare a essere intesa come una faccenda privata, un servizio occasionale o una merce da “esternalizzare” il cui peso ricade quasi esclusivamente sulle donne. Si tratta di tenere all’orizzonte un modello sociale che riconosca questa interdipendenza e la fondamentale natura relazionale dell’umanità, superando il fake dell’individuo isolato, perfettamente autonomo e indipendente.
Nasciamo, viviamo e – se abbiamo fortuna – moriamo in relazione. L’atomo dell’umano è il due. La cura è parte essenziale del lavoro necessario per vivere.
Va insegnato alle ragazze e ai ragazzi, spiegando loro che tutte le forme di cura sono interconnesse, che riguardino noi stessi, le famiglie, le comunità o l’ambiente. Il lavoro di cura richiede competenze essenziali: intelligenza emotiva, capacità di lavorare in
squadra, creatività, tolleranza allo stress, flessibilità e rapidità nel risolvere problemi, skill identificati dal Forum economico mondiale come fondamentali.
Oggi il 76% dei lavoratori domestici nel mondo sono donne.
Ogni giorno vengono svolte più di 16 miliardi di ore di lavoro domestico e di cura non retribuito, per un importo pari al 9% del Pil globale, circa 11 mila miliardi di dollari annui se retribuito al minimo: questo gender gap va superato. Il bisogno di cura è in costante aumento anche a fronte dell’invecchiamento della popolazione. Riconoscerlo è fondamentale per dare corso a percorsi professionali che elevino il settore dell’assistenza, rendendolo una scelta professionale preziosa e attraente per donne e uomini.
Solo assumendo la cura come valore sociale essenziale è possibile costruire economie floride e più giuste. Oggi viviamo un vero “paradosso della cura”: ne aumenta la necessità, ma non si registra un concomitante riconoscimento del suo valore per il benessere sociale ed economico. Serve una “CaRerevolution” e i giovani – maschi e femmine – devono esserne i protagonisti.
Al tema dei fratelli di bambini con disabilità è dedicato il libro autobiografico del giovane scrittore Giacomo Mazzariol, classe 1997, Mio fratello rincorre i dinosauri. È la storia degli anni dell’infanzia e dell’adolescenza dell’autore, segnati dal rapporto con il fratello Giovanni affetto da sindrome Down.
Se all’inizio Giovanni apprezza e trova divertente il nuovo arrivato in famiglia, con il passare del tempo e l’aumentare delle “stranezze” del fratello, in Giacomo prevalgono il senso di rifiuto e di vergogna, fino ad arrivare a nascondere agli altri l’esistenza di Giovanni.
Crescendo tuttavia Giacomo imparerà a vedere suo fratello con occhi diversi e a lasciarsi travolgere dalla sua fantasia e dalla sua vitalità.
Dal romanzo è stato tratto l’omonimo film (2019) di Stefano Cipani con Alessandro Gassman e Isabella Aragonese. A interpretare Giovanni, il fratellino con la sindrome di Down, è stato il giovane Lorenzo Sisto. La pellicola ha vinto nel 2020 il premio David Giovani assegnato da una giuria nazionale di tremila studenti degli ultimi due anni di corso delle scuole secondarie di secondo grado.